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Trieste, ovvero il mondo in una città

07.01.2025
Paolo Lughi
Paolo Lughi

Oggi proverò a sintetizzare il percorso della cultura cinematografica a Trieste. Parlerò di fatti abbastanza noti, come lo sguardo benevolo degli scrittori e intellettuali triestini verso il cinema, o del ruolo di ponte della città tra il cinema occidentale e orientale. Ma vorrei mettere anche in evidenza un fattore finora più trascurato, ovvero la presenza femminile negli anni nella cultura cinematografica triestina.

Dunque, se si parla di cultura riferendosi a Trieste, si intende generalmente la cultura letteraria, non quella cinematografica. Trieste è nota per essere la città di Svevo, Joyce e Saba, oppure in tempi più recenti di Giorgio Pressburger, Susanna Tamaro e Claudio Magris. Ma si sa che questi scrittori sono stati attratti dal cinema, o come gestori (Joyce, Saba), o per l’influenza di Chaplin (Svevo), o per il desiderio di fare cinema (Pressburger, Tamaro, anche Claudio Magris, che lo ha ripetuto nelle più recenti interviste). 

Come scrisse anche Alberto Farassino, Trieste è stata dunque “la prima città italiana in cui si sono sviluppati rapporti tanto intensi quanto concreti fra gli intellettuali e lo schermo”.

Ma a cosa è dovuto questo amore degli scrittori triestini per il cinema, da cui il cinema ha tratto sicuramente beneficio? E più in generale, perché il cinema ha avuto un ruolo importante nella vita di tanti triestini?

Una prima ragione può essere cercata nella perifericità di Trieste, che si trova al centro geografico dell’Europa, ma allo stesso tempo può essere vissuta come lontana da tutto. Così i triestini si sono forse aggrappati al cinema come a un surrogato del viaggio, come a una finestra verso mondi lontani, più centrali, più interessanti. E questo atteggiamento potrebbe spiegare anche la diaspora a partire dagli anni ’50, di critici come Kezich, Cosulich, Giraldi, Ranieri, Viazzi. O di tante attrici e attori andati a Cinecittà come caratteristi, segnati dal mimetismo, come Federica Ranchi e Livio Lorenzon, per citare solo due nomi.

Una seconda ragione storica dell’interesse suscitato dal cinema fra i triestini potrebbe riguardare invece la composizione della cittadinanza, che è sempre stata multiculturale. A inizio ‘900 la popolazione slovena a Trieste contava 50.000 abitanti, più di Lubiana. In questo caso tutti gli usurati cliché triestini (crogiuolo, zona franca) effettivamente funzionano, perché in una città che è stata teatro purtroppo di scontri drammatici, il cinema è stato per lo più un simbolo di inclusione, di incontri e scambi culturali.

In una comunità di stranieri, il linguaggio eminentemente visivo del cinema ha infatti sempre rappresentato un fattore di avvicinamento, di superamento di barriere fra identità diverse. E fin dalle origini del cinema, Trieste ha effettivamente svolto la funzione di ponte verso il Centro Europa. Sono stati ad esempio la casa triestina Curiel-Crassé, ed Enrico Pegan, concessionario dei Lumière, a esportare e proiettare a partire dal 1896 i primi film a Lubiana e Zagabria.

Tornando a Joyce, pare che fosse stata sua sorella Eileen ad accendere nel fratello nel 1909 la scintilla del cinema, con l’idea di aprire una sala stabile a Dublino (dove non ce n’erano, mentre a Trieste erano già una decina, in linea con le maggiori città italiane).

Questa immagine che Eileen ha da lontano di Trieste come città del cinema, è il primo esempio di quella definizione che dà il titolo al mio intervento: Trieste, ovvero il mondo in una città. Che è una citazione dai dialoghi del film hollywoodiano del 1952 Corriere diplomatico, quando sorvolando Trieste uno steward spiega al protagonista Tyrone Power perché si tratti di una città contesa: “Quello che durante la guerra erano Lisbona e Istanbul, adesso è Trieste. Spionaggio, controspionaggio, informatori, titini, antititini, stalinisti, antistalinisti: il mondo in una città”.

Il divo di “Corriere diplomatico” Tyrone Power non prese parte alle riprese triestine, sostituito da una controfigura, e quindi anche lui conobbe Trieste da distante, attraverso la sua sola immagine. Una situazione peraltro comune nel mondo per questa città. Come disse nel 2002 Veith Heinichen, il giallista tedesco triestino adottivo, a Paolo Rumiz: “Pochi conoscono Trieste, ma tantissimi la immaginano”.

Torniamo per un’ultima volta a Joyce. Lui e la sorella Eileen parlavano dunque fra loro di cinema e film. Mi illudo così, anche se non c’è traccia di questo, che pure Joyce e Svevo, quando si incontravano, parlassero fra loro di cinema. Ma se di questo non sappiamo nulla, sappiamo invece che lo facevano Silvio Benco e Umberto Saba, come ha testimoniato Anna Gruber, nipote di Benco, ricordando “intense conversazioni” fra loro.

Parlare e far parlare di cinema è una situazione che a Trieste ovviamente non è diversa da qualsiasi altro luogo al mondo. La differenza, forse, è che in questa città ciò è avvenuto, nel tempo, a intervalli, con inabissamenti e riaffioramenti come un fiume carsico. Un percorso di scomparse e rinascite, dove fortunatamente c’è sempre stato qualcuno che poi ha raccolto il testimone.

Arriviamo al secondo dopoguerra, alla Trieste del Governo Militare Alleato. A raccogliere il testimone delle chiaccherate fra Benco e Saba sono due giovanotti triestini di buona famiglia, Callisto Cosulich, erede della dinastia di armatori, e Tullio Kezich, figlio di un avvocato dirimpettaio della casa dove aveva abitato Svevo.

Cresciuti con l’amore per il cinema nato fra la trentina di sale cittadine e le proiezioni estive al Giardino pubblico, critici precoci rispettivamente al “Piccolo” (allora “Giornale di Trieste”) e a Radio Trieste, Cosulich e Kezich vengono chiamati nel 1947 dallo scultore Marcello Mascherini ad avviare la sezione Spettacolo del Circolo della Cultura e delle Arti.

Una casa madre dal nome altisonante per quello che forse è il primo cineclub moderno in Italia. Ma i due enfants terribiles si ispirarono forse anche alle prime Mostre di Venezia del dopoguerra firmate dal 1946 al 1948 da Elio Zorzi, che proponevano personali di Dreyer, Lang e Renoir.

Ma la Trieste del GMA era anche quella dov’erano visibili, prima e in maggior quantità che nel resto d’Italia, film internazionali in lingua originale.

La prima proiezione del CCA ebbe luogo il 15 febbraio 1948 con Il milione di René Clair al Politeama Rossetti, e l’attività proseguì fino ai primi anni ’50 con cicli intensi e una programmazione lucidamente alternativa, che nella Trieste anglo-americana proiettava anche film sovietici, e aveva l’obiettivo “di ospitare quei film che per qualsiasi ragione trovano vita difficile, se non impossibile, sugli schermi normali, soggetti al nostro insanabile provincialismo e conformismo” (si legge in un anticipatore dattiloscritto dell’epoca).

Le serate ebbero grande affluenza e videro come ospiti il grande documentarista Joris Ivens e un debuttante Antonioni che presentò per la prima volta al pubblico Cronaca di un amore. In platea sedevano naturalmente degli intellettuali, Giani Stuparich e Anita Pittoni. Le proiezioni si tenevano, oltre che al Rossetti, in tutta la cittò, all’Alabarda, al Fenice, al Ridotto del Verdi e al Cinema del Mare sulle Rive (l’attuale Casa del Cinema).

Mi ha sempre incuriosito il modo che all’epoca avevano Kezich e Cosulich di vedere la città, in funzione strettamente cinefila. Nella Trieste che era quella di “Corriere diplomatico”, ovvero il “mondo in una città” popolato di titini e antititini - e dove infatti nel 1947 era tornato anche il controverso Vittorio Vidali, la Primula rossa dell’internazionale comunista - Kezich e Cosulich la descrivono (e la vivono) come una città parallela fatta di celluloide, una sorta di Village newyorkese o di Quartiere latino. Come quando ad esempio si mettono alla ricerca di Tino Ranieri, che non conoscevano, come se fosse una sorta di Primula rossa dei critici: “Ogni tanto sentivamo parlare di questo misterioso personaggio – scrisse Kezich – annidato in periferia, che del cinema sapeva tutto e ne predicava il verbo in circoli a noi ignoti”.

Per Kezich e Cosulich la Trieste dell’epoca era vissuta quasi come un cineclub diffuso, costellato di proiezioni in lingua originale, o un festival metropolitano ante litteram, dove poteva esserci spazio per gesti situazionisti pre-sessantottini, come l’episodio della cosiddetta “rivolta di Ladri di biciclette”. Fu quando Cosulich, chiamato a presentare come critico del “Giornale di Trieste” un’anteprima di gala di Amleto di Laurence Olivier al Cinema Excelsior, a sorpresa invitò tutti a cambiare sala, ad attraversare la strada e ad andare a vedere invece Ladri di biciclette, programmato al vicino Fenice per pochi giorni come “tappabuchi” fra due film americani. Insomma, se per Hollywood quella Trieste era il mondo in una città, per Kezich e Cosulich quel mondo del dopoguerra era solo cinema.

E infatti la Trieste del GMA è anche quella che attira i primi set importanti, dal Neorealismo di confine di Cuori senza frontiere, al melodramma patriottico Trieste mia! da una parte, a Trst di France Štiglic dall’altra, secondo lungometraggio della nascente cinematografia slovena, fino alle prime spy-story come l’inglese Vagone letto per Trieste o l’americano Corriere diplomatico. Non sappiamo se Vittorio Vidali si mescolava al pubblico per vedere questi film di spionaggio, che probabilmente gli avrebbero strappato un sorriso. Sappiamo invece che avrebbe pianto, decenni più tardi, nel buio di una proiezione alla Cappella Underground, dove si proietterà un film della sua compagna Tina Modotti, morta in Messico come noto in circostanze poco chiare.

Emigrati Cosulich e Kezich, rispettivamente a Roma nel 1950 e a Milano nel 1953, in una città che aveva più sale di ogni altra città italiana in rapporto alla popolazione il testimone della cultura cinematografica viene raccolto dai critici Libero Mazzi al “Piccolo” e Carlo Ventura per le conferenze al CCA. Ma anche da figure della politica curiosamente contagiate dalla cinefilia. Mi riferisco ad Arduino Agnelli, che nell’ottobre del 1954 da una costola del CCA fa nascere il CUC, e a Michele Zanetti, il futuro presidente della Provincia (quello che chiamerà all’Ospedale psichiatrico Franco Basaglia), che nel 1956 dà vita al Cineforum triestino. Si tratta di esperienze che tengono accesa la passione cinematografica in città guardando anch’esse al Centroeuropa, con cicli sulla Nova Ulna cecoslovacca o sul cinema espressionista tedesco. Passione testimoniata anche da accesi dibattiti.

Come accade il 15 febbraio 1960 per l’incontro su La dolce vita di Fellini al CCA, in collaborazione col CUC, dove la polizia deve intervenire per tenere a bada gli esclusi inferociti. Condotto da Tino Ranieri, l’incontro viene animato dal duello fra voci contrarie e favorevoli al film, tra le quali militano quelle di Marcello Mascherini, dei più giovani Michele Zanetti e Gianni Menon, nonché a sorpresa da un gesuita, tale Padre Andreoli, secondo le cronache pare molto applaudito.

L’anno dopo, nel 1961, Trieste si riscoprirà set importante con la Claudia Cardinale sotto la pioggia (artificiale) di “Senilità” di Bolognini, primo film tratto da Svevo e primo anche tratto dalla letteratura triestina. A Senilità seguiranno numerose pellicole ispirate a romanzi o racconti di Quarantotti Gambini, Stuparich, Saba, Vegliani, le più belle delle quali sono state forse dirette dal triestino Franco Giraldi. In questi film, scrisse Farassino, “la città fisica è raddoppiata e filtrata dalla città mentale, o emotiva, o nostalgica. quasi a costituirne uno spazio scenografico aggiuntivo”.

E anche dall’evento “Senilità” Trieste troverà impulso per accogliere dal luglio 1963 il primo Festival del Film di Fantascienza al mondo. Un’idea nata da un gruppo di scrittori veneziani, che però trovano sponda in città nel citato Libero Mazzi e nel presidente dell’Azienda autonoma di soggiorno Duilio Magris, ovvero il padre di Claudio, che finanzia la rassegna con 10 milioni di lire.

Non un mondo in una città, in questo caso dunque, ma addirittura altri mondi in una città.

Il Festival della Fantascienza, che durerà in questo suo primo ciclo per 20 anni, avrà un rapporto particolare con il cinema indipendente americano (Roger Corman su tutti) e britannico (le case Amicus e Tigon), con figure intriganti della Nouvelle vague come Pierre Kast e Jean-Daniel Pollet, ma soprattutto avrà un ruolo importante per far conoscere in Occidente la produzione di genere dell’Europa dell’Est.

L’ha testimoniato ad esempio Goffredo Fofi: “Il Festival di Fantascienza di Trieste era straordinario perché sfondava il muro che ci separava ancora dall’Europa dell’Est – dichiarò Fofi ad Alessandro Mezzena Lona in un’intervista di otto anni fa – Ricordo ancora i film di fantascienza russi e un cecoslovacco, Fine agosto all’hotel Ozon di Jan Schmidt, che raccontava un futuro post-atomico dove sopravvivevano soltanto donne. Un piccolo capolavoro che nelle sale italiane non è mai arrivato”. E che rappresenterà, aggiungiamo, una fonte di ispirazione pare per il Tarkovsky successivo di Solaris e Stalker.

Anche dalle suggestioni internazionali di questa rassegna, oltre che dal vento del ’68, inizia nel febbraio del 1969 l’avventura tuttora in corso della Cappella Underground. Questo “storicissimo” cineclub (la definizione è di Marco Müller) - secondo in Italia solo al Filmstudio di Roma per anzianità fra quelli nati in un nuovo clima di cinefilia a 360° - viene portato avanti nel suo primo ciclo ventennale da un gruppo dallo sguardo aperto e insieme pragmatico, composto da Lorenzo Codelli (corrispondente della rivista “Positif” in Italia), Sergio Grmek Germani, Mario de Luyk, Sergio Crechici, Cesare Picotti, Piero Percavassi, Annamaria Percavassi e Rosella Pisciotta. Due donne queste, Annamaria e Rosella, di grande personalità e tenacia che hanno saputo cementare per tanto tempo questa talentuosa équipe, garantendo continuità e qualità a quello che è diventato un simbolo del cinema a Trieste.

E la Cappella, oltre a raccontare la crescita della contemporanea New Hollywood, guarda anch’essa oltre frontiera, perché organizza subito rassegne sul cinema ungherese e cecoslovacco, altre a una sul Nuovo cinema jugoslavo e su Dusan Makavejev nel 1971, nell’anno cioè del suo celebre Wilhelm Reich – I misteri dell’organismo, con l’iconica Milena Dravic. E saranno gli organizzatori della Cappella a segnalare nel 1981 ai selezionatori della Mostra di Venezia il film d’esordio di un certo Emir Kusturica, Ti ricordi di Dolly Bell?

Alla Cappella, a incontrare il pubblico triestino, arriva nell’aprile 1974 anche Francis Ford Coppola, che in città sta girando Il padrino parte II alla vecchia Pescheria, trasformata nell’isola newyorkese di Ellis Island. Il film rappresenta anche l’esempio più significativo di come l’immagine di Trieste nel cinema, grazie al alla sua fotogenia, alla varietà di paesaggi e stili architettonici, e all’ambiente urbano poco identificabile, possa trasformarsi nell’immagine di tante altre città. Di nuovo, il mondo in una città. In seguito Trieste sul grande schermo diventerà così Vienna, la cui atmosfera si respira naturalmente, oppure Parigi, Firenze o Roma nelle ultime serie Netflix, mentre in precedenza, negli Eurospy di serie B che negli anni ’60 si appoggiavano agli studi Ceria alla Fiera di Montebello, era stata Barcellona, Istanbul o Stoccolma.

Nei primi anni ’80 però, anche a causa della svolta politica autonomista della città, poco interessata alla cultura cinematografica, entrano in crisi sia la Cappella, che deve presto lasciare la sua sede storica di via Franca, sia il Festival della Fantascienza, che non viene più sostenuto dall’Azienda di Soggiorno. Urgono nuove strategie, e la Cappella si offre nel 1983 di raccogliere il testimone del Fantafestival, cercando appoggi attraverso un convegno dove sono invitati i massimi esperti di cinema italiani. Ma dalla platea si alza una mano. È quella autorevole del docente e critico triestino Bruno De Marchi, il quale suggerisce invece l’idea più consona a Trieste di un festival sulla produzione cinematografica del Centro Europa.

E così infatti accadde con l’avvio a fine anni ’80 prima degli Incontri di Alpe Adria Cinema, e poi del Trieste Film Festival. Un’iniziativa, questa, nata dalle ceneri della prima fase storica della Cappella, che è un aspetto della diaspora dei suoi protagonisti verso altre realtà. Se Annamaria Percavassi si dedica infatti allo sviluppo di Alpe Adria, invece Piero Percavassi e Mario de Luyk lanciano la nuova gestione d’essai del cinema Ariston col suo Festival dei Festival, e Rosella Pisciotta e Cesare Picotti fanno nascere il Teatro Miela nell’ex Casa del lavoratore portuale, già utilizzato da Cosulich e Kezich nel dopoguerra.

La scelta di avviare un festival rivolto al cinema centroeuropeo risulta di sicuro preveggente, tenendo conto della caduta del Muro di Berlino nel 1989. Ma va anche detto che negli anni ’80 il cinema d’autore tradizionalmente inteso - quello che si domanda il senso della vita e il senso della storia - stava proprio nel Centroeuropa. Gli anni ’80. Ricordiamolo, furono un decennio iniziato col Nuovo cinema tedesco e concluso col Decalogo di Kieslowski.

Ed è di fine decennio anche Il cielo sopra Berlino, il film del ritorno di Wim Wenders in Europa. Un film dove curiosamente proprio Trieste è citata all’inizio fra le tappe toccate dall’angelo Peter Falk.

Una citazione, questa, simile ad altre citazioni del nome di Trieste nel grande cinema d’autore, altrettanto fuggevoli e misteriose, simili a pezzi sparsi di un enigmatico caleidoscopio. Gli anni ’80 sono del resto, anche a seguito della pubblicazione nel 1982 del saggio di Claudio Magris Trieste. Un’identità di frontiera, un decennio in cui in Europa si torna a parlare in termini simbolici, culturali, talvolta quasi esoterici e non più politici, di questa città.

Nel 1983 in Francia esce infatti un numero monografico della rivista “Critique” intitolato Les mysteres de Trieste. Sempre nel 1983 su impulso di Italo Calvino viene pubblicato il romanzo Lo stadio di Wimbledon di Daniele Del Giudice sull’intellettuale triestino più enigmatico, Bobi Bazlen, e non a caso sarà un regista francese a trarne un film nel 2000, prima produzione della FVG Film Commission, che da quel momento renderà organica la presenza dei set in città. E nel 1985 a Parigi al Centre Pompidou viene organizzato un grande omaggio culturale alla città, Trouver Trieste, con la sezione cinema Un regard retrouvé.

Trovare Trieste, appunto. Un gioco che si può fare nelle pieghe misteriose del cinema d’autore, non solo in Wenders, ma anche in un cartellone di partenze ferroviarie in Rapporto confidenziale di Orson Welles, sul poster di una nave in Mr. Hula Hoop dei fratelli Coen, fino al recente Tenet di Christopher Nolan. Più che il mondo in una città, stavolta, una città nel mondo, rimasta impressa per qualche ragione nella memoria degli autori, non sappiamo se per una ragione storica o cinematografica o di altra natura.

Ci avviciniamo alla conclusione. Alpe Adria Cinema è il primo festival tutto triestino nell’ideazione e nell’organizzazione, ed è sempre stato a trazione femminile, da Annamaria Percavassi a oggi con Nicoletta Romeo. E a questo festival si deve probabilmente la svolta decisiva che dagli anni ’90 in poi vede nascere il Festival del cinema Latino-americano, Maremetraggio, I 1000 occhi con Sergio Germani e Science+Fiction, che raccoglie il testimone del Festival della Fantascienza grazie a Massimiliano Spanu e Daniele Terzoli, esponenti della nuova generazione della Cappella Underground.

Negli anni 2000 Trieste non avrà più la sede della Cineteca regionale, ma guadagnerà, grazie anche all’impegno dell’ultima presidente della Provincia, Maria Teresa Poropat, una Casa del Cinema fra le più significative in Italia, che ospita le sedi di tutti i Festival, in un palazzo che è proprio quello (l’ex Casa del lavoratore portuale), da cui era partita l’avventura cinefila di Kezich e Cosulich.

A proposito di critici, questi due grandi non ci sono più, ma “Il Piccolo” è oggi il quotidiano italiano a più alto tasso di critica cinematografica femminile, grazie a colleghe come Cristina Borsatti, Elisa Grando e Federica Gregori. Mentre Beatrice Fiorentino è oggi una delle più apprezzate programmatrici, prima donna a dirigere la Settimana della critica a Venezia, e Nicoletta Romeo, oltre a dirigere il Trieste Film Festival, guida anche la storica Sezione spettacolo del CCA. E sempre a proposito della presenza femminile, la Film Commission regionale ha una coordinatrice, Chiara Valenti Omero, e la Cappella Underground ha una presidente, Chiara Barbo.

E chiudendo sul tema della regia, la trentenne triestina Laura Samani ha vinto nel 2022 l’Oscar europeo e il David di Donatello per il miglior esordio con Piccolo corpo, favola arcaica che è anche uno dei più bei film sul paesaggio friulano. Si tratta della prima donna regista ad aggiudicarsi il David per questa categoria dopo 25 anni.

Laura Samani si è formata alla Mediateca della Cappella Underground, come ha sottolineato nelle sue interviste.

Perché c’è sempre qualcuno che raccoglie il testimone.

Autore: Paolo Lughi

 

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